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Il fotografo Jeff Burton è noto per la qualità cinematografica delle sue opere: i bagnanti di una piscina d'albergo diventano uno studio sulla saturazione dei colori; i corpi abbronzati sono visti da lontano, distorti da superfici a specchio; lo sguardo di una donna si scorge attraverso lo specchietto retrovisore di un'auto. L'ordinario e lo straordinario appaiono amplificati e insoliti.
Le fotografie di Burton sono state esposte in tutto il mondo, dal Guggenheim Museum di Bilbao al Barbican Centre di Londra. Per il suo ultimo progetto, il fotografo di Los Angeles ha puntato l'obiettivo sulla sede di Molteni&C a Giussano, in Italia.
Il risultato è un libro fotografico creato in onore del 90° anniversario dell'azienda, che presenta ritratti spontanei di designer, artigiani, e membri della dinastia italiana del design.
Che cosa l’ha spinta a fotografare Molteni&C?
A parte il notevole patrimonio storico di design del brand e le sue lunghe collaborazioni con gli artisti, ho capito che Molteni&C aveva intenzione di fare qualcosa di diverso con questo libro e sono felice di dire che credo che ci siamo riusciti.
Il progetto del libro mi è stato presentato da Beda Achermann, direttore creativo, amico, e collaboratore avventuroso. Mi ha spiegato che anche i Molteni erano avventurosi, aperti a raccontare la loro storia, e sentiva che saremmo andati molto d'accordo.
Perché ha deciso di affrontare il servizio fotografico come se stesse realizzando un film documentario?
L'idea di inquadrare lo scatto nello stile di un film è stata lanciata dallo Studio Achermann. È nata in modo naturale dalle conversazioni che ho avuto con Beda sugli stili diversi che avrei dovuto utilizzare per catturare così tanti tipi di immagini e storie in tempi molto brevi. Sarei stato un fotoreporter, un fotografo di ritratti, un fotografo di still life, ecc. Beda mi ha contattato perché mi vedeva come l'artista giusto con lo spirito fotografico giusto per questo progetto.
Per diverse ragioni, un approccio documentaristico era lo spirito più indicato per descrivere il mondo Molteni. Sapevo - e lo sapevamo tutti - che non volevamo un libro interamente composto da immagini sterili, uno stile spesso associato alla documentazione fotografica del design. Questa storia era più ampia e umana.
L'approccio documentaristico mi ha liberato dalla regia della ‘scena’, così da potermi concentrare completamente, persino in modo meditativo, sull'essere un fotografo che realizza immagini - un direttore della fotografia tanto quanto, se non più, di un regista. Non volevo scene dirette.
L'esperienza degli scatti è stata ritmata come un film documentario che si svolge in tempo reale e ho affrontato la creazione delle immagini in modo molto libero. Francamente, ho dovuto farlo per necessità. Non c'era tempo per pensarci troppo.
Mentre alcune foto sembrano allestite, altre risultano così vere che potrebbero essere state scattate da un paparazzo. Quanto è stato spontaneo?
Le diverse situazioni sono state pianificate, in una certa misura, in anticipo, il che mi ha dato la libertà di essere molto spontaneo con il tempo che avevo a disposizione. A dire il vero, quasi tutti gli scatti sono stati spontanei, anche i ritratti dei designer. Abbiamo allestito le "situazioni" e Beda e io abbiamo co-diretto con la troupe e la famiglia. In modo molto naturale, questo approccio mi ha permesso di costruire e documentare un più ampio spettro di fotografie e diversi tipi di immagini contemporaneamente.
In che modo la sede dell'azienda si è prestata a questo stile cinematografico?
L'idea è nata perché lo stabilimento e gli spazi circostanti assomigliano a uno studio di Hollywood. La sede centrale sembra veramente un set cinematografico, è un fulcro di attività, con "scene" che si svolgono in spazi molto diversi. Come potete vedere, si tratta di un ambiente molto vasto ed è piuttosto interessante quello che succede al suo interno.
Ci racconti della scelta di avvalersi della famiglia Molteni nel ruolo di produttori e dei designer come protagonisti.
Non credo che sia tanto una scelta di casting quanto il riflesso di una realtà. Per la cronaca, tutti quelli che ho fotografato erano star e protagonisti nella mia testa.
Jasper Morrison, il designer della Tea Chair di Molteni (2021), disse: "Il design negli oggetti dovrebbe essere percepito piuttosto che visto." Pensa che questo valga anche per la fotografia?
Mi piacciono le idee sensoriali ed emotive a cui mi fa pensare la citazione di Jasper Morrison. Direi che l’equilibrio può essere un atto artistico. Non pensarci troppo. Mente e corpo. Mi viene in mente “Non sforzarti troppo.”
C'è una nota di surrealismo in alcune delle immagini: per esempio, lo scatto di George Yabu e Glenn Pushelberg che cavalcano una pila di pellami. Come sono nate idee come questa?
È stato un momento allegro, folle e improvvisato! Beda e io l'abbiamo co-diretto in base alla giovialità dei soggetti e alla sensazione del momento. Penso che quell'immagine sia più Dada come termine artistico. Ci sono altre immagini nel libro che ritengo siano più surrealiste.
Per la sezione dedicata alla Divisione Contract di Molteni&C ha scattato le fotografie che documentano i progetti storici dell'azienda. Quali sono state le sfide - e le opportunità - di lavorare con materiale d’archivio?
Le trasparenze sono state le più divertenti da fotografare. Era tutto interessante da vedere. Fotografare Tobia Scarpa con in mano la sua trasparenza è stato un vero piacere. Alcuni dei miei ritratti preferiti sono proprio di Tobia.
Dopo 90 anni, naturalmente, ci sono molti oggetti affascinanti negli archivi. A proposito… mi piacerebbe avere un set di quattro sedie Monk, se qualcuno sta leggendo.
C'è stato qualcosa che l'ha sorpresa durante il suo periodo in Molteni&C?
L'approccio diretto dei Molteni, il loro incoraggiamento a scattare liberamente e la loro fiducia in questa decisione, così come la fiducia data a me e a Beda come team creativo in generale.
Lei ha iniziato la sua carriera scattando foto sui set di film per adulti, spesso concentrandosi su dettagli inaspettati: i riflessi, ad esempio, o l’arredamento. In questo progetto i mobili sono ancora al centro della sua attenzione. Qual è il rapporto tra quel primo periodo e il suo stile attuale?
Il suo uso della parola surreale quando guarda il mio lavoro è collegato a quei primi lavori. Vedere cose che sono già anomale e diverse in un modo eccitante e inconsueto è il punto in cui le cose possono diventare molto surreali.
La mia esperienza in quell'industria è un argomento che richiede molto più tempo di quello che abbiamo a disposizione qui. Il surrealismo era una parte di quella visione e di quel linguaggio che amavo e che non voglio abbandonare. Lavorare in quell'industria negli anni Novanta è stato incredibile. Era ancora underground, segreto e pre-internet. All'epoca avevano bisogno di molto materiale fotografico.
Avevo appena conseguito il Master in Belle Arti (MFA) in pittura alla CalArts quando ho iniziato a scattare foto. In precedenza, avevo dedicato anni alla pittura. È stata una sorta di tempesta perfetta di creatività e stimoli: un incredibile parco giochi in cui sviluppare un vocabolario visivo unico. Stavo lavorando molto e imparando molto sulla fotografia e sulla vita.
Le sue opere hanno spesso un senso di segretezza o alludono a una narrazione che lo spettatore deve intuire. Ha sempre una storia specifica in mente?
Sta toccando un tema in continua evoluzione. Giocare con la narrazione, sconvolgere le cose, sono meccanismi da cui può nascere dell'arte. O almeno, con cui può accadere qualcosa di nuovo. Ci vuole un po' di coraggio da parte dei clienti e talvolta un po' di follia da parte mia, per vedere quanto possiamo essere straordinariamente trasgressivi e far comunque funzionare il tutto.
Main Image: un 'Roomscape' immaginato da Vincent Van Duysen che esalta la connessione tra interno ed esterno, con pezzi della Collezione Outdoor. Ph. Jeff Burton, da Molteni Mondo. An Italian Design Story di Rizzoli NY, 2024
Per celebrare i 90 anni di Molteni&C, Rizzoli New York pubblica ‘Molt eni Mondo - An Italian Design Story’, disponibile in tutto il mondo da settembre 2024.
Nel centro di Milano, a pochi passi dal Duomo, si trova Villa Necchi Campiglio, progettata da Piero Portaluppi (1888-1967) per la famiglia Necchi Campiglio tra il 1932 e il 1935.
Ci sono libri che raccolgono storie, le mettono in fila, trovano un ordine, classificano e compilano elenchi, ripercorrono cronologie e salti di scala, piccole rivoluzioni e grandi cambiamenti, dai progetti ai prodotti.
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